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“Nothing can stop me now” è uno dei versi più famosi di una delle canzoni (“Piggy”) più celebri della creatura di Trent Michael Reznor, i Nine Inch Nails. E niente sembra davvero possa fermare questo 48enne della Pennsylvania, che da un mesetto a questa parte ha ricominciato a portare in giro per il globo le sue performance live, dopo una pausa durata quattro anni.

Ieri sera è stato il turno di Milano, Forum di Assago. Location particolare quella meneghina, per due motivi: il primo legato al fatto che in questa prima trance di tour di promozione del nuovo lavoro “Hesitation Marks”, in uscita il 3 settembre, i NIN si sono esibiti praticamente solo nei festival estivi (salvo una club performance a Londra); il secondo per la scelta di suonare indoor il 28 di agosto.

Qualunque sia stato il motivo della scelta, Reznor deve averla ponderata bene, perché, durante le quasi due ore di concerto, introdotte dai Tomahawk di Mike Patton, l’ormai ex Mr Self Destruct ha sciorinato in maniera impeccabile tutto il suo ormai vastissimo repertorio. La cosa che a parere di chi scrive rende unici ed inimitabili i NIN è il fatto di saper spaziare senza batter ciglio su più generi musicali. Ne è testimone la loro discografia, che non presenta di fatto un lavoro simile all’altro.

E anche lo show milanese ha dimostrato una volta di più la poliedricità e l’eclettismo di questo gruppo, a torto più volte recluso dietro l’etichetta “industrial”. Dopo il vorticoso inizio elettronico con tutti e cinque i membri della band allineati sul palco in stile Kraftwerk a smanettare a console, tastiere e drum machine, si è infatti poi passati in un lampo ad una più classica performance live con batteria, basso e chitarra in primo piano, per poi, a fasi alterne, ritornare via via sull’elettronica più cupa, sulle ballate e sull’ambient.

Inizio elettronico, dicevamo, con l’ormai classica (per questa tornata di concerti estivi) entrata in solitaria di Reznor, la cui mise, composta da canottiera verde lisa, pantaloni corti neri e bicipiti scolpiti, ricorda quella di un muratore capitato quasi per caso sul palco. Due giri di manopole alla console e attacco fulminante con la nuova “Copy of A”, con gli altri membri della band (tutti superlativi come il loro mentore) che entrano anch’essi uno alla volta sul palco a distanza di qualche secondo l’uno dall’altro.

Le luci del palazzetto restano tutte sorprendentemente accese, insieme ad un faretto accecante posto accanto al frontman. Che si tratti di un errore? Manco per sogno. E’ solo per aumentare l’effetto dell’improvviso salto nel buio a metà canzone, quando comincia a farla da padrona la scenografia vera e propria, composta da luci coloratissime e provenienti da qualunque parte del palco e da cinque pannelli mobili, spostati poi di continuo durante tutto il live e mai illuminati allo stesso modo.

Dopo la bella rivisitazione di “Sanctified”, con un giro di basso che entra nello stomaco ed il singolo “Came Back Haunted” (efficacissimo e ancora più catchy che in studio), in un batter d’occhio si cambia scenario. Via le drum machine e le tastiere. Si comincia a pestare durissimo. Per sette canzoni di fila non c’è un attimo di respiro. Anzi sì, c’è lo splendido intervallo al piano di “The Frail” a far rifiatare un attimo. Si parte con “1,000,000” e si finisce con “Gave Up”. In mezzo, tra il muro del suono di “March of the pigs” e la follia altalenante e cacofonica di “Piggy” (con tanto di semi-tuffo tra il pubblico di Reznor), c’è spazio anche per “I’m afraid of americans” di Bowie, uno degli idoli del muscolato mattatore della serata. Menzione a parte per “Closer”, coi pannelli luminosi a rinchiudere Trent in una gabbia e a rimandare la sua immagine distorta in rosso mentre tutti si chiedono dove lo stesso Trent sia finito. Poi, come per magia, i pannelli si dischiudono, e rivelano la figura dell’uomo di Mercer impegnata davanti a una telecamera. Geniale.

Dopo la “settina” (probabilmente la parte migliore del concerto) si prosegue cambiando registro quasi di canzone in canzone. C’è spazio per l’elettronica abrasiva di “Me, I’m not”, la calma minimal di “Find my way” (altro pezzo del nuovo disco), la pacatezza ambient di “What if we could?” (dalla colonna sonora di “The girl with the dragon tattoo”), il “bad luck fist fuck” di “Wish” e il synth-pop di “Only”. Il finale, dopo la piacevolissima “The hand that feeds” è affidato a uno dei primissimi successi dei Nails, “Head like a hole”, capace di far saltare tutto il palazzetto a colpi di “I’d rather die than give you control”.

Il bis è uno solo, ma varrebbe l’intero prezzo del biglietto. Stiamo ovviamente parlando di “Hurt”, una canzone che potresti ascoltare cento volte di fila come se fosse la prima, tale è la sua bellezza malata e straziante. Reznor sceglie di cantarla senza l’ausilio del piano, ma accompagnato dalla chitarra del fido Robin Finck, prima dell’esplosione noise finale.

Applausi scroscianti e lunga vita a mister Reznor. E che niente possa fermarlo, per favore.

Questa la scaletta completa:

Copy of A
Sanctified
Came Back Haunted
1,000,000
March of the Pigs
Piggy
The Frail
The Wretched
Terrible Lie
I’m Afraid of Americans (David Bowie cover)
Closer
Gave Up
Help Me I Am in Hell
Me, I’m Not
Find My Way
The Warning
What If We Could? (Trent Reznor and Atticus Ross cover)
The Way Out Is Through
Wish
Survivalism
The Good Soldier
Only
The Hand That Feeds
Head Like a Hole
Hurt

Per leggerlo su Ondarock: http://www.ondarock.it/livereport/2013_nin.htm

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A 5 anni di distanza dall’ultimo (invero abbastanza deludente) lavoro e dopo avere annunciato qualche mese fa un tour nei principali festival europei e statunitensi, ecco che i Nine Inch Nails tornano anche a sfornare musica nuova.

E’ di ieri, infatti, la notizia che di qui a qualche mese (per la precisione il 3 settembre) torneremo a trovare sugli scaffali dei negozi materiale inedito con l’inconfondibile marchio NIN. Il titolo dell’album sarà “Hesitation Marks” e la canzone scelta a fargli da traino è già presente in rete e su iTunes.

Si chiama “Came back haunted” e non delude le attese dei molti fan di Trent Reznor. Il ritmo è accattivante, graffiante, con un ritornello che ricorda quello di “The hand that feeds”. Il lavoro sul suono, è, manco a dirlo, sontuoso. Si tratta di un pezzo altamente “catchy”, allo stesso tempo ballabile e aggressivo, una delle caratteristiche che han fatto sì che i Nine Inch Nails riuscissero a portare melodia su delle basi e su dei testi a dir poco corrosivi. E proprio nel testo si ritrovano alcuni dei cavalli di battaglia del Reznor paroliere. Il “just cannot stop” ripetuto ossessivamente riporta al “nothing can stop me now” di “Piggy”, così come il “but I couldn’t stop myself” urlato a metà pezzo.

Resta da vedere come sarà il resto dell’album. Intanto Mr self destruct is back. E già questo, in attesa del live del 28 agosto al Mediolanum Forum, basta ed avanza.

Questo il link per ascoltare il pezzo: https://soundcloud.com/nineinchnails/came-back-haunted-2013

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C’è molta Roma in questa nuova fatica di Sorrentino. E c’è anche (va quasi da sé) molta bellezza. La bellezza della Città Eterna. Coi suoi scorci magici, i suoi monumenti, i suoi angoli più reconditi ma immensamente affascinanti. E poi c’è lui. Jep Gambardella (Toni Servillo). Che Roma la assapora, la divora. E da essa si fa divorare.

Da molti anni Jep, oltre ad essere un giornalista affermato, è anche uno dei principali attori della vita notturna della Capitale, con le sue feste nella sua casa con terrazza vista Colosseo, con le sue conoscenze e le sue amicizie in alto, tra Cardinali, Sante e persone con le chiavi dei Palazzi Romani.

Intorno a Jep c’è tutto un mondo. C’è il fallito (Carlo Verdone) che lo adula e lo vede come un mito, cercando di rubarne per proprietà transitiva qualche stilla di fascino e potere. C’è la ricca che non lavora (Isabella Ferrari) con la casa in piazza Navona. C’è la figlia di un suo amico di vecchia data che fa soldi con gli striptease (Sabrina Ferilli). C’è, insomma, tutto il sottobosco della mondanità romana. Che, periodicamente, si raduna sulla terrazza di casa Gambardella a discutere del più o del meno o a fare trenini a base di coca e alcol al ritmo di un’assordante musica disco, con la quale si apre il film.

Quel che colpisce dell’opera, oltre alla solita (quasi pleonastica da far notare) incredibile prestazione di Servillo, è il lavoro di fino sulla sceneggiatura e sulle luci. Davvero notevoli. Idem per quanto riguarda la ricercatezza delle inquadrature, alcune davvero singolari.

Sì, ma qual è la trama? Beh, qui sta il trucco. In realtà, ne “La grande bellezza”, non esiste una vera e propria trama. C’è un ricordo di un amore giovanile a legare tra loro alcune vicende contemporanee di Jep. Ma tutto il resto sembra lasciato fluire in base agli umori del protagonista e alla sua smania di partecipare alle feste, nonostante i 65 anni. Ci sono tante piccole microstorie: il rapporto col personaggio di Carlo Verdone, la scoperta della morte di una persona a lui cara in gioventù, un rapido amore durato il tempo di una sera, la conoscenza di un Cardinale, eccetera. Ma il centro di tutto sono le orge goderecce organizzate a casa di Jep, con la loro vacuità e i penosi balletti di queste persone la cui ragione di vita sembra, appunto, solo quella di atteggiarsi a finti dandy su comodi divanetti in vimini o di scatenarsi in oscene danze o trenini davanti alla solenne bellezza del Colosseo.

Per una buona ora e mezza il film scorre piacevolmente, strappando qua e là anche qualche sorriso. Nell’ultima parte, però, le idee di Sorrentino sembrano esaurirsi, e cominciano a susseguirsi una serie di situazioni talmente paradossali da apparire quasi dei riempitivi per portare a termine il lavoro.

Vero è, che tali situazioni cominciano a palesarsi proprio quando Jep sembra iniziare egli stesso a stancarsi della sua vita da eterno giovanotto scapigliato. Si percepisce, infatti, una certa delusione e un senso di vuoto. Ma basta una festa e tutto torna come prima.

Quel che, in conclusione, sembra mancare a “La grande bellezza” per renderlo davvero un grande film, è una trama più decisa, che vada al di là delle (alla lunga quasi ripetitive) scorribande del protagonista. Oltre a ciò, si potevano rendere più incisivi certi personaggi, che, invece (vedi quello di Carlo Verdone), scivolano via senza lasciare traccia.

Sorrentino riesce però comunque a condurci attraverso un magico viaggio dentro le bellezze di una città straordinaria come Roma, contrapponendole con sapienza al vuoto pneumatico di molti personaggi che la popolano. E quel Colosseo sempre sullo sfondo, sembra messo lì apposta a vegliare e a perdonare come un Padre i vizi di chi di tale bellezza vorrebbe nutrirsi, ma probabilmente non vi riuscirà mai.

Voto: 6/7

Il partito cieco

 

Pd

“Il Pdl cerca lo scontro”. Questo il ritornello odierno proveniente dai banchi del Pd dopo il ritorno alla carica del partito di Berlusconi sulla questione intercettazioni.

In effetti, solo un cieco o un sordo (quindi il Partito Democratico) poteva credere che il Pdl si comportasse in modo leale e corretto in questo “strano” governo.

Quando si sveglieranno? Probabilmente alle prossime elezioni, nelle quali, a essere ottimisti, supereranno – se continuano di questo passo – a malapena il 15%.

Autorottamazione?

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Rottamatore for President? Stando agli ultimi “rumors” del Palazzo, pare proprio che il principale indiziato per guidare il prossimo governo (auguri) sia Matteo Renzi, l’ambizioso sindaco di Firenze.

Una scelta giusta? Sbagliata?

Lasciando un attimo da parte quel che il giovane rampante del Pd (o meglio, di quel che ne resta) potrà portare di buono per il Paese con una sua eventuale salita a Palazzo Chigi, quel che è interessante capire è se una mossa del genere possa essere davvero fruttuosa per Renzi stesso.

I rischi di un’ascesa così prematura, decisa esclusivamente dalle logiche di potere/convenienza di Pd e Pdl, sono infatti alti.

In primis, quello di apparire, anziché un Rottamatore, come una parte attiva dei giochini della politica, visto anche che, si mormora, Matteo sarebbe spinto fortemente proprio da quel Massimo D’Alema da lui più volte attaccato in passato.

In secondo luogo (e qui starebbe la grande abilità tattica di Berlusconi, che sa che Renzi è l’unico del Pd in grado di batterlo), il rischio di fare la fine di Monti. Acclamato come un Salvatore (de che?) in un primo momento, ma poi scaricato man mano da tutte le forze che lo avevano inizialmente sostenuto.

Insomma, divenendo adesso Presidente del Consiglio, Renzi rischierebbe certamente di bruciarsi, lasciando per strada buona parte del suo charme “giovanilista” e di rottura. Inevitabilmente, infatti, un eventuale governo da lui guidato rischierebbe di rimanere inviso un po’ a tutti, anche solo per la sua disgraziata genesi. E questo Berlusconi lo sa. Meglio bruciarlo ora che ritrovarselo bello fresco come avversario alle prossime elezioni (non lontane, probabilmente).

Pensaci bene Rottamatore, rischi di rottamarti con le tue mani.

Epic fail

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La lungimiranza. Il sapere ascoltare e osservare il Paese. Per fiutarne sensazioni. Emozioni. Richieste. Bisogni. Necessità.

Di questo dovrebbe nutrirsi un partito politico serio. Con la “p” maiuscola.

A tutto questo, invece, continua a restare allergico il Partito Democratico.

Perseverando nelle logiche di nomenklatura, nella mancanza di lettura degli eventi, in una chiusura interna che fa pensare ad una certa spocchia. “Ma tanto noi siamo diversi, non siamo mica Berlusconi” “Ma tanto ci votano lo stesso”. A tutto c’è un limite.

Questa è demenza, per non dire stupidità.

Il Paese chiama, ha fame di volti, stimoli, metodi nuovi.

E la cosa migliore che sai fare è dargli in pasto Marini. No dico, M-A-R-I-N-I, quello a cui, insieme a Massimo D’Alema, è sempre stata data la colpa (in realtà se l’è attribuita da solo) dell’aver contribuito a far cadere il primo governo Prodi (l’ultima, e unica, vittoria vera del centrosinistra). Quello scambiato nel 2006 per la poltrona di Ministro della Giustizia dell’ottimo Clemente Mastella (ricordate la querelle sui Franco/Francesco Marini che ne impedì l’elezione alle prime votazioni al Senato?).

Decine di giorni per partorire tale nome, quando la società civile pullula di belle persone stimate e pronte a mettersi al servizio del Paese.

Un partito con la “p” maiuscola, che, volente o nolente, è quello che ha preso più voti il 25 e 26 febbraio, non avrebbe tergiversato. Non si sarebbe dilaniato nelle sue settecentosettantamila correnti e correntine. Non avrebbe aspettato di incontrare Berlusconi per dare il via libera all’ex sindacalista (poi dice che uno non deve pensare all’inciucio….). Non avrebbe mendicato voti a destra e a manca.

Avrebbe formulato un nome da subito. Forte, autorevole, nuovo. Spiazzante.

Ci sono volute le fantozziane “Quirinarie” organizzate (?) dal M5S per far emergere il bubbone. Da queste, dopo le (ovvie) defezioni di Gabanelli e Strada è emerso un nome. Quello più temuto, in fondo, da buona parte del Pd. Un nome in grado di stenderli, forse, per sempre. Perché è un nome che loro non sarebbero mai stati in grado di concepire, nonostante lo abbiano avuto lì a portata di mano da un paio di mesi, anche per un governo.

Si scrive Rodotà ma si legge epic fail. Per tutti.

Mr smentita

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Ha un che del miglior Berlusconi, il capogruppo del Movimento 5 Stelle al Senato Vito Crimi.

Così come l’ex Presidente del Consiglio è diventato via via famoso negli anni per la sua incredibile capacità di dire una cosa un giorno e smentire se stesso il giorno successivo (grazie anche a certa stampa accomodante e – eufemismo – poco “fact-checker”), anche uno dei volti nuovi della nostra politica, il pacioccone (a prima vista) Crimi, sembra ben avviato verso questa strada.

Non più tardi di oggi, l’ultimo episodio, quando, con una leggera punta di imbarazzo, si è trovato a dover smentire di aver mai sostenuto che “un governo Bersani senza fiducia sarebbe comunque meglio di Monti”.

A differenza del Cavaliere, però, il buon Vito è spesso costretto a tali retromarce non tanto per volontà propria, quanto (è lecito supporre) per non trovarsi in disaccordo con Beppe Grillo, che in più di un’occasione ha corretto il tiro delle dichiarazioni “crimiane”.

Eppure, sempre stando alle parole odierne di Crimi, all’interno del Movimento 5 Stelle il dibattito “non è mai stato negato”. Allora perché Grillo soffoca sempre le sue dichiarazioni? Urge una smentita.

Lo Us Open sta entrando nella sua fase più calda, e tutte le sue star stanno, per il momento, rispettando i pronostici e veleggiando senza troppi patemi. Una di queste stelle, però, è momentaneamente spenta, offuscata, senza luce. Ma il mondo del tennis, inesorabile, va avanti, non ammette pause, non può permettersi il lusso di aspettare chi è rimasto indietro. Di chi stiamo parlando? Ma di Rafael Nadal, ovviamente, sul cui rientro cala ogni giorno una nebbia sempre più fitta. Circolano foto dello spagnolo in palestra, intento a rimettere in sesto il proprio fisico e le proprie ginocchia, suo tallone d’Achille da sempre. Si dice che rientrerà a febbraio, chi teme per la fine della sua carriera. Ma in molti sembrano essersi già dimenticati di lui, in un certo senso si è già fatto il callo alla sua assenza, al fatto di non vedere più in tabellone uno dei pochi detentori del career Slam.

Allargando il discorso, proviamo a chiederci che cosa sarebbe stato il tennis senza Nadal. Non soltanto oggi per un (speriamo) breve periodo di tempo. Più in generale. Se quel ragazzino proveniente dall’arcipelago delle Baleari avesse deciso di giocare a calcio invece che prendere in mano una racchetta, quanto sarebbe stato diverso il nostro sport?

IL LOOK

Il primo Rafa, quello dei pinocchietti, delle canottiere e dei baffi Nike enormi (vedasi la finale del 2005 a Roma con Coria) era un vero e proprio tamarro. Altro che tennis in bianco. Altro che eleganza. Viva il truzzismo e chi lo predica. Sull’onda di Nadal, però, altri tennisti di grido (in primis il suo amico Moya) hanno iniziato a vestire in quel modo. E la canotta, da indumento prettamente da spiaggia o da pomeriggio afoso al bar con stecchino da denti, ciabatta e catenina al collo annessi, ha fatto il suo ingresso nell’elitario mondo della racchetta.

LA FIGURA DELLO ZIO

C’è stato il padre, c’è la madre, ci sono le mogli, ci sono stati e ci sono i coach, ma quando mai era stata così mitizzata la figura di uno zio nel tennis? Zio Toni, col suo perenne cappello calato sulla testa, la sua voce semi-fioca, la sua abbronzatura tutto l’anno, i suoi suggerimenti in barba al regolamento che vieta il coaching. Buona parte del successo del nipote, fatti due conti, deriva proprio da lui e dai suoi insegnamenti.

TENNIS E INFORTUNI

L’avvento di un giocatore come Nadal, dal fisico tanto forte quanto fragile, ha portato in primo piano la questione degli infortuni. Ogni volta che gioca, ogni smorfia che fa, ogni gesto verso il suo angolo, ogni benda sulla “rodilla”, sono eventi da seguire con attesa spasmodica. “Ma sarà infortunato? Ma avrà di nuovo la tendinite? Il suo piede fa contatto col gomito?”, e via discorrendo. Di riflesso, tale “mania” si è riversata anche sugli altri giocatori, per cui ogni medical time out è ormai diventato un dramma, quando in realtà, il più delle volte si tratta solo di (odiose) soste tattiche.

GLI SLAM DI FEDERER

Questo è il punto più annoso della questione. Senza volersi addentrare in ragionamenti da curva, molto probabilmente, non vi fosse stato Nadal, Roger avrebbe vinto almeno un paio di Roland Garros in più e almeno una volta il Master di Monte-Carlo. Fermandoci ai tornei sul rosso. Poi c’è la questione della finale di Wimbledon 2008, di Melbourne 2009….Insomma, il Signore dei record avrebbe potuto sfondare quota 20 Slam già da un pezzo.

IL GIOCO

Il power tennis già esisteva prima di Nadal, per carità, ma lo spagnolo ha introdotto un nuovo tipo di gioco, specie con la sua evoluzione negli anni. Se il primo Rafa era infatti un giocatore quasi prettamente difensivo, nel corso del tempo ha trasformato i suoi colpi in un mix letale tra aggressività e difesa, incluso anche un netto miglioramento nel tocco e sotto rete. Ne è così uscito un tipo di tennista per certi versi non riproducibile, capace di passanti da cinque metri dietro la linea di fondo come di dritti da buco in terra da metà campo. Definirlo terraiolo o arrotino è riduttivo (pur essendo la terra la sua superficie preferita e il colpo carico di spin la sua prerogativa). Sicuramente è difficilmente imitabile e in un certo senso unico, anche se, specie per la sua tattica contro Federer (martellare il rovescio) ha ispirato molti altri colleghi, seppur con risultati mediamente scarsi o nulli.

LA RIVALITA’

A proposito di Federer, era da anni che non si vedeva una rivalità del genere su un campo da tennis. Certo, le dicotomie, le differenze di stile e quant’altro ci sono sempre state e sempre ci saranno. Ma, anche grazie alla sempre maggiore copertura data dai mass media, Rafa e Roger sono ormai dipinti come due mondi distinti e inconciliabili (anche se i due vanno apparentemente d’amore e d’accordo). Hanno spaccato in due gli appassionati (anche troppo, si leggono spesso cose davvero repellenti, in un senso e nell’altro) e hanno, proprio per la loro diversità, ridato grande visibilità a uno sport come il tennis forse un po’ in crisi per l’assenza di personaggi. Non vi fosse stato Nadal ma il solo Federer, beh, molto probabilmente (visto anche il fatto che come talento e approccio ai match lo spagnolo è più, diciamo, accessibile) tutto questo interesse e tutta questa attesa per gli Slam non vi sarebbe stata negli ultimi anni. Oggi, o sei Federer o sei Nadal (in misura minore puoi essere un Djokovic). E le semplificazioni piacciono, avvicinano, anche se il vero appassionato dovrebbe saper cogliere le molte sfumature che stanno in mezzo. Ma questo è un altro discorso.

Fumo azzurrognolo

battito accelerato

 

malinconia a tratti

ricordi pulsanti

 

mani che tremano

cervello che vaga

 

voglia di ricominciare

Pornostory

Cosimo non aveva una relazione fissa. Si considerava un tipo troppo eclettico, troppo estroverso e troppo curioso per avere una storia sempre con la stessa ragazza. O “buco” come molto finemente definiva lui l’organo sessuale femminile.

Così, visto anche il fatto che era un uomo di bell’aspetto, piacente, simpatico e piuttosto sfrontato (caratteristica spesso sottovalutata, ma in realtà fondamentale per avere successo con le donne), Cosimo riscuoteva parecchia fortuna con il sesso debole. Ne cambiava in media un paio al mese. Il tempo di (sempre nella sua raffinata ars oratoria) “farglielo assaggiare bene bene e di ficcarglielo giù per gola”. Cosimo amava in particolare il secondo punto. Il “ficcarglielo giù per gola”. Ovvero, farselo succhiare, farsi fare i pompini, insomma.

Come tutte le belle cose però, tutto ha da finire.

Una sera in cui si sentiva particolarmente su di giri (lui e il suo “manfalo”, come lo definiva lui), Cosimo decise che era giunto il momento di sperimentare. Dopo aver passato un paio d’ore in discoteca, e avere nel frattempo raccolto un paio di interessanti numeri di  telefono di futuri “buchi” da testare, si rese conto che quella sera il suo corpo desiderava giocare a un gioco nuovo. O meglio, a un gioco vecchio, ma fatto in modo e con persone diverse.

Pagò così l’ingresso del locale, uscì nel parcheggio e infilò le chiavi nella sua Punto Abarth nera. Si accese una cicca, ingranò la marcia e nel giro di quindici minuti era già giunto alla meta. La tangenziale. Leggi zoccole, o, come le definiva lui, pur non essendoci mai stato, “insert coin”, come la scritta che lampeggia sui display dei videogiochi quando nessuno sta giocando. Facile capire cosa, con una prostituta, era il “coin” e quale fosse il posto dove inserirlo.

Non capiva fino in fondo perché si era recato lì. In fondo, aveva già rimediato un paio di succulenti numeri di telefono. Insistendo un po’ di più, si sarebbe probabilmente “svuotato le palle” con una delle due tizie in questione senza troppi problemi. Ma quella sera gli girava in modo diverso.

Scandagliò una prima volta le bellezze in offerta sul viale, che si stava sempre più riempiendo di altri avventori a quattro ruote. Se le sarebbe fatte tutte, ma, a dir la verità, più che “farlo assaggiare bene bene”, quella notte sentiva forte il desiderio di “ficcarlo giù per gola” a qualcuna.

Un giro. Il “manfalo” si imbarzottisce. Due giri. Si impenna. Tre giri. Esplode. Al quarto giro, giusto poco prima di vedere la bandiera a scacchi (che disdetta sarebbe stata, ancora prima di consumare) causa ultra arrapamento, Cosimo trovò finalmente colei cui stuzzicare la laringe col suo fallo. Fu attratto dalla sua aura misteriosa. La ragazza (o donna, non se ne poteva stabilire l’età) portava infatti un foulard molto scuro sopra la testa che le copriva in pratica anche il viso, di cui si poteva scorgere solo una piccola parte del mento. Il resto del corpo però era mozzafiato. Curve da far paura. Gambe slanciate, lunghe e magre. Culo sodo. Piedini fatati.

Accostò. La ragazza, senza battere ciglio, aprì la portiera e salì in macchina. Cosimo le chiese come si chiamava. Non rispose. Le chiese se poteva togliersi il velo. Non rispose. Le chiese la tariffa. Non rispose. Le chiese dove potevano appartarsi lì vicino. Non rispose.

La velata cominciò però a toccarsi nelle parti intime, pian piano, facendo scorrere le lunghe dita affusolate dentro e fuori gli slip. Dentro e fuori. Dentro e fuori. Cominciò anche ad ansimare leggermente, reclinando il capo indietro. Cosimo sentì un uragano dentro di sé, e così, alla prima traversa sulla destra, girò e spense il motore. Mentre la ragazza continuava a toccarsi dolcemente e a gemere di conseguenza, Cosimo si sbottonò i pantaloni. Non fece a tempo a sfilarseli, che già le labbra carnose della prescelta avevano cominciato a lavorare intorno al suo pene. Due leccatine sensuali alle cosce, poi sempre più giù, più giù, fino a raggiungere l’inguine. Lo scroto. E il membro in piena erezione. Cosimo cominciò a godere dopo pochi secondi. Ogni volta che sembrava sul punto di esplodere, la ragazza rallentava la velocità della sua opera.

Su e giù, su e giù. Le labbra scandivano un ritmo perfetto, celestiale.

Dopo dieci minuti di estasi del suo cliente, la ragazza decise che era giunto il momento di farlo godere appieno. Di farlo venire. Non diminuì così l’intensità del suo lavoro di lingua e labbra. Cosimo venne con tutto se stesso, chiudendo gli occhi. Esondò, come avrebbe fatto un fiume dopo una piena di una settimana. Urlò, scalciò con le gambe, si allungò sul sedile e si stirò. Poi riaprì gli occhi.

La ragazza si era tolta il foulard. Adesso poteva vederne il viso.

Era Marta, sua sorella, che non vedeva da 15 anni.

<<Mi hai sempre arrapato un sacco fratellino, sapevo che prima o poi saresti passato da queste parti>>.

Fu l’ultima volta che Cosimo ficcò giù per gola il suo manfalo a una donna.